Seppur in maniera più timida rispetto USA esempio, anche il regolatore italiano muove i suoi primi passi. Un recente decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanza(MEF) ha dato seguito alla quinta direttiva antiriciclaggio istituendo il registro dei virtual asset service providers.
UN DECRETO NAZIONALE SULLE CRIPTOVALUTE SERVE A QUALCOSA?
I dubbi non mancano.
“Serve una soluzione globale, che definisca i costi della regolazione e i benefici per gli utenti”, sottolinea Chiara Oldani, professoressa di Politica economica all’Università degli studi della Tuscia, che poi rimarca come la norma italiana sia ben più restrittiva di quella in vigore in Europa e rischi “di essere sostanzialmente inefficace, proprio per via dell’arbitraggio regolamentare”.
Le autorità di controllo del mercato finanziario, in testa la Consob, da tempo sollevano il problema della tutela del mercato, della stabilità;
Le crypto sono scambiate fuori dai mercati, con transazioni tra privati registrate sulla blockchain e nessuno tutela i risparmiatori. Serve però una soluzione globale, che definisca i costi della regolazione e i benefici per gli utenti, ha scritto l’economista.
In occasione del G20 italiano del 2021 questo tema non era neanche nell’agenda tecnica, il Finance Track, a conferma che la paura di perdere business supera ampiamente la necessità di tutelare i risparmiatori da parte di grandi paesi, come gli Stati Uniti e l’Unione Europea così come i piccoli.
IL RISCHIO DI SVANTAGGIARE L’OPERATORE ITALIANO
Per Marcello Bussi, cripto-esperto di MF, il decreto sulle criptovalute rischia di svantaggiare gli operatori italiani.
Infatti la novella prevede che chi opera nel mondo delle criptovalute venga assimilato ai cambiavalute e ai money transfer e debba pertanto comunicare ogni tre mesi tutte le operazioni effettuate da ogni singolo cliente, di cui verranno forniti i dati identificativi.
Più del 90% delle attività di cittadini italiani nel settore cripto si svolge su piattaforme estere, si registreranno all’Oam o rischieranno di vedersi oscurare i loro siti in Italia?”, si chiede Bussi.
Visti i precedenti si può supporre che la più grande borsa di criptovalute del mondo, Binance, se ne infischi.
Potrebbero agire diversamente altre borse note per essere ben disposte a collaborare con le autorità dei diversi Paesi, per esempio Coinbase, la prima a essersi quotata al Nasdaq. Queste potrebbero dare vita a un contenzioso legale, visto che sono registrate in un Paese dell’Ue e potrebbero contestare il fatto di doverlo fare anche in Italia, che, con l’entrata in vigore del decreto applica norme più restrittive rispetto alla direttiva Ue.
Il vero timore sembra essere per quei pochi operatori italiani che vanno incontro a un aumento di costi per poter adempiere ai loro obblighi nei confronti dell’Oam.
Senza dimenticare che quello che era partito come una sorta di censimento degli operatori è diventato un censimento anche dei loro clienti. Il registro Oam sarà accessibile alla Guardia di Finanza e alle altre forze di polizia nel caso di controlli e accertamenti.
La necessità di un chiarimento fiscale
Quello che adesso servirebbe in Italia è un chiarimento fiscale, anche perché la competenza su questo aspetto non è europea ma nazionale. A oggi il quadro è definito da prassi che discendono da una sentenza della Corte di Giustizia Europea che equipara, ai fini IVA, le criptovalute alle valute straniere. A questa sentenza si sono aggiunte nel tempo occasionali pareri dell’Agenzia delle Entrate e sentenze di Tribunali italiani.
Servirebbe un quadro organico e ci sono iniziative parlamentari in tal senso. Nell’ultima finanziaria la senatrice Elena Botto ha tentato senza successo di far passare un emendamento, ma ha ottenuto l’impegno del Governo a valutare l’opportunità di dare attuazione alla parte dispositiva dei principi contenuti nel suo emendamento.
Questi principi sono in sintonia con la proposta di legge presentata mesi orsono da Daniele Zanichelli e il loro recepimento sarebbe di straordinaria utilità per fare chiarezza e facilitare gli adempimenti fiscali.
Per punti si tratta di:
• confermare l’imponibilità delle plusvalenze ai fini IRPEF: si pagano le tasse sul capital gain, come redditi diversi con una aliquota al 26%
• subordinare l’imponibilità al possesso di crypto-assets per un controvalore superiore a €51.645,69 per almeno 7 giorni lavorativi continui (stesso regime utilizzato per le valute straniere)
• sancire che non ha alcuna rilevanza il concetto di “prelievo” di valute virtuali, non essendo assimilabile al prelievo da un conto corrente
• affermare la rilevanza fiscale delle sole operazioni che comportano pagamento o conversione in valute tradizionali e sovrane, escludendo tutte le operazioni da cripto a cripto
• determinare la plusvalenza imponibile nel caso di mancanza di documentazione del costo di acquisto con criteri analoghi a quelli già adottati nel TUIR per i metalli preziosi (se si trova in un cassetto una moneta d’oro della nonna, la plusvalenza è il 25% del suo valore di mercato)
• chiarire l’assenza dell’obbligo di monitoraggio (modello RW) se il controvalore massimo complessivo delle criptovalute detenute nel periodo d’imposta non è superiore a €15.000 (come per i conti all’estero)
• ribadire la non imponibilità delle valute virtuali ai fini IVAFE
Negli anni, il mercato delle crypto ha fatto giganteschi salti in avanti. Sono nate nuove forme e nuove realtà, a partire dalle Decentralized Autonomous Organizations (DAO), sono emersi gli NFT (25 miliardi di dollari i valori venduti nel 2021), si sono moltiplicate le problematiche relative a criptovalute non tracciabili per definizione (Monero). Il ruolo del bitcoin e delle stablecoin è diventato trainante per prodotti finanziari di massa come gli ETF.
Tutti aspetti che sfuggono dai radar del legislatore italiano, mettendo in campo una normativa già sorpassata.