L’assenza di norme mette in difficoltà gli operatori onesti. Aprendo il fianco ad abusi. Ma le spie di un’operazione sospetta, per esempio a un bancomat per criptovalute, sono note.
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Non a caso anche in Italia, dove sta crescendo il numero di questi apparecchi, le autorità hanno acceso un faro. Nella sua ultima relazione, l’Unità di informazione finanziaria (Uif), l’ente che si occupa di antiriciclaggio per conto della Banca d’Italia, riferisce che nel 2020 “ulteriori analisi si sono incentrate sul fenomeno dell’acquisto/vendita di criptovalute mediante dispositivi atm, installati presso i locali commerciali di società italiane che operano per conto di un Vasp (fornitore di servizi di asset virtuali, ndr) estero”. Le stesse situazioni che ha potuto verificare Wired, grazie alle segnalazioni ricevute attraverso WiredLeaks, la nostra piattaforma per proteggere l’anonimato delle fonti. E che, precisiamo, non riguardano il settore in generale o le criptovalute, ma solo chi ne fa un uso distorto.
“In questa situazione, oltre a danneggiare le aziende che operano secondo le regole, si danneggia soprattutto il mercato dei bitcoin”, lamenta a Wired Federico Pecoraro, imprenditore italiano e fondatore di Chainblock, prima azienda a portare in Italia gli atm per criptovalute nel 2013.
Noi effettuiamo ogni tipo di controllo e applichiamo le procedure di kyc e di kyt (know your customer e know you transaction, ndr), che sono indispensabili per operare correttamente e segnalare eventuali operazioni sospette – spiega -.
Oggi l’Italia però sembra essere una terra di nessuno, dove non ci sono controlli effettivi per assicurarsi che tutti gli operatori rispettino le stesse regole, indispensabili soprattutto per la quantità di truffe e di illeciti che si consumano sia con sia senza i bitcoin”.
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